Riflessione sul dating market di oggi

Gelointenso_isback

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Cosa hanno in comune Luigi Berlusconi e Ginevra Elkann, oltre ad avere due cognomi importanti (nella realtà socio-economica italiana) ed essere due persone ricche e influenti? Sono entrambi azionisti di Ag Digital Media, la società che ha creato e gestisce sui social Freeda, una delle più importanti piattaforme dedicate alla propaganda femminista.

Ufficialmente aperta all’emancipazione e alla liberazione della donna (“emancipazione e liberazione da chi?” andrebbe spiegato, visto che l’Italia non è l’Afghanistan), Freeda è stata fondata da due uomini (le femministe non sono state nemmeno in grado di realizzare una cosa del genere da sole…) e in tre anni, secondo i dati del Sole 24 Ore, è arrivata a generare ricavi per 20 milioni di euro, a cui vanno aggiunti 6 milioni di euro di advertising digitale. Questo femminismo rende decisamente bene, come ci ha già insegnato la paladina del marketing femminista Chiara Ferragni.

Poi, però, qualcosa in Ag Digital Media si è rotto (pare siano saltati un paio di contratti strategici) e ora la società si è avviata verso l’istanza di liquidazione volontaria.

Rimane un dato di fondo, evidente a tutti: le istanze del femminismo macinano utili, attirano capitali, si impongono come una religione ma poi, allo stesso tempo, le femministe si dipingono come vittime della società patriarcale. Una contraddizione enorme che ha un corollario altrettanto enorme: per vedere chi comanda, devi vedere chi è vietato criticare.

Provate a criticare il femminismo da un ruolo pubblico (non certo da un profilo social finto) e vedrete la vostra carriera andare a puttane in meno che non si dica.

L’Ansa titola il 1º luglio 2025: Bufera a Roma per l’iniziativa di FdI sugli uomini maltrattati. Sottotitolo: Lo sportello nel XV municipio. Il Pd: ‘Scelta misogina’. Critico il Campidoglio.

È difficile trovare una polemica più esplicativa della situazione del femminismo italiano e del doppio standard. Un’iniziativa rarissima a favore degli uomini maltrattati crea il caos politico perché “i maschi” maltrattano, secondo la definizione femminista, e quindi non possono essere maltrattati (la stragrande maggioranza dei centri antiviolenza, pagati con i fondi pubblici, non assiste uomini). Verrebbe meno il caposaldo della vittimizzazione femminista che esclude ci possano essere uomini vittime di violenza femminile. E verrebbe meno anche l’architettura polarizzante della lotta al patriarcato con i suoi sacri dogmi scolpiti nelle tavole della legge femminista.

Il Partito democratico, con il tafazzismo che gli è congenito (si veda la voce “Femministo”), vede “una scelta misogina”, sposando quindi la logica polarizzante tipica dell’antifascismo e sostituendola con il femminismo. Quindi se non sei femminista, sei misogino (che è poi ciò che sosteneva qualche tempo fa il magazine radical-chic The Vision in un articolo dal titolo manicheo: Il contrario di femminista è maschilista, non uomo).

C’è bisogno di altro per capire la malafede del sistema femminista che rema solo in una sola direzione? Quando si sveglieranno quegli “uomini” che belano, come agnelli davanti al mattatoio, “il femminismo si batte anche per gli uomini”?

La vicenda di Alvaro Vitali, da tutti conosciuto come l’interprete dei film di Pierino, ci insegna una lezione molto dolorosa. No, non si fa riferimento al fatto che la moglie lo avesse tradito e lasciato dopo 27 anni insieme e lui avesse scritto lettere fino all’ultimo minuto dall’ospedale pur di recuperare il rapporto con lei. Si tratta di vicende troppo personali che, proprio con il sopraggiungere della morte, è giusto che rimangano nella sfera privata, anche se loro ne avevano parlato pubblicamente.

Qui si vuole invece evidenziare qualcos’altro. Vitali era stato emarginato dal mondo del cinema per ragioni che non sono mai state del tutto chiarite. Lui ci era rimasto male e non faceva altro che lamentarsi in ogni occasione possibile. Eppure, a parte Carlo Verdone, nessun nome importante del cinema era presente all’ultimo saluto. Ciononostante, sui giornali era pieno di interviste di attori e attrici che ricordavano Vitali con la lacrima da coccodrillo.

È la classica ipocrisia di un sistema che vive di apparenze e di appartenenze. Apparenze perché devono essere sempre pronti a farsi vedere, a marcare il territorio, a dimostrare che loro esistono. Appartenenze perché, in fondo, non possono tradire certe linee invisibili che vengono tracciate nell’ambiente, pena l’essere additati come traditori.

E, quindi, qual è la lezione? Contano gli affetti veri, quelli costruiti e mantenuti, seppur a fatica, nel corso di tutta la vita. I social network, con la loro falsità, hanno intossicato la vita di tanta gente portandola a dinamiche estreme di apparenza e appartenenza.

Come fece notare una coach britannica, le “creatrici” di Onlyfans dovrebbero sapere che quegli uomini a cui mostrano il deretano non saranno presenti al loro funerale.

Tinde ce la sta mettendo tutta per superare la crisi che ha colpito tutte le app di dating. Secondo Hdblog, in California è stato avviato un sistema di riconoscimento facciale (con tutte le garanzie di tutela della privacy e a prova di video e immagini generate dall’intelligenza artificiale) per fare in modo che gli utenti siano tutti persone in carne ed ossa e non bot o utenti finti.

Questo sistema, già sperimentato in Canada e Colombia, potrebbe essere esteso a tanti altri paesi nel caso in cui l’esperimento negli Stati Uniti dovesse andare a buon fine. L’idea del management di Match (la capogruppo di Tinder) è quella di arrivare a un ambiente in cui gli utenti siano “verificati” per offrire garanzie di sicurezza.

D’altronde, uno dei motivi della stanchezza da dating online è proprio la frustrazione per l’uomo medio di fare un match con un altro uomo (il quale finge di essere una donna) che la tira per le lunghe solo per truffarlo o, peggio ancora, attirarlo in una trappola per rapinarlo (questo è purtroppo avvenuto più volte in Colombia).

- dal blog {ilgalantuomodissacrante}
 
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