The Substance, un film sul desiderio struggente che abbiamo tutti di essere visti: non essere desiderati è come morire

mcanrew

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Riuscire a essere più belli, più giovani, sconfiggere la morte che arriva e che ci fa la pelle come quella di un pollo tenuto in frigo. Sconfiggere il tempo che ci rende invisibili, indesiderabili. Fermare la corsa del tempo che ci porta giù, con sé. Perché noi ci crediamo sempre giovani, mentre il resto del mondo ci strappa via dal salotto buono, spegne le luci e le telecamere, ci mette in uno sgabuzzino buio. The Substance di Coralie Fargeat – era in concorso a Cannes, dove ha vinto il premio per la sceneggiatura – non è un film sottile. È un body horror, un incubo fantascientifico che spara a tutto volume, a tutto schermo i suoi orrori, i suoi rumori, i suoi umori. È grottesco, violento, usa primi piani di siringhe, tubi, cannule, deforma i volti appiccicandoli alla telecamera, mostra senza pudore ferite, corpi tagliati, liquidi corporali. Non è sottile: è cronenberghiano, con quei corpi femminili tagliati, cuciti, sanguinolenti, ed è “titaniano”, nel senso che ricorda un film che vinse a Cannes nel 2021, Titane di Julia Ducournau, altro film certo non misurato, forte proprio della sua sfacciataggine. Ma nella sua essenza, The Substance è soprattutto un film sul desiderio struggente e patetico che abbiamo tutti, di essere desiderati ancora. Perché non essere amati, non essere visti, è come morire.




È forse ancora più straziante che l’angoscia, il terrore di invecchiare, di essere spazzata via, nel film sia incarnata da Demi Moore. La più bella sessantunenne che si possa immaginare. Eppure, riesce a rendere credibile quella incrinatura nella sicurezza, quella paura sottile, la paura – la sensazione – di essere diventata invisibile, indesiderabile. E Demi Moore riesce a mettere rabbia, paura, insicurezza nella sua recitazione, mentre interpreta una star in parabola discendente, conduttrice di un programma di fitness al mattino, come una Jane Fonda fuori tempo massimo. Demi Moore che porta dentro il film, inevitabilmente, la sua storia personale. Lei, uno dei simboli del desiderio maschile negli anni ’90. Corpo e volto da desiderare, innocente in Ghost, cinica e manipolatrice in Rivelazioni, fedele ma vacillante in Proposta indecente, eroticamente muscolare in Soldato Jane, nuda in Striptease. E nuda anche qui, a mostrare con coraggio il suo corpo, in un confronto anche ravvicinato con quello di Margaret Qualley, l’altra se stessa, la “versione migliore di sé” creata dalla sostanza che sta nel titolo del film. Tutti, in fondo, crediamo di essere già quella versione migliore di noi stessi, anche senza bisogno della sostanza. Tutti ci sentiamo, nel profondo, la ragazza o il ragazzo che eravamo. E ogni tanto ci imbattiamo in una persona anziana, nello specchio davanti a noi. Basta farci caso, e vediamo che il film è disseminato di specchi, di superfici che riflettono l’immagine, o di oggetti che guardano: specchi nei bagni, specchi contro i quali battere la testa mille volte, occhi di telecamere che ti scrutano come l’occhio di Hal 9000 di 2001: Odissea nello spazio (guarda la video recensione). E persino lucidissimi pomelli di maniglie che ti riflettono anche se non vuoi. O enormi manifesti in giro per la città, ancora altri specchi dell’immagine della protagonista. Perché esistere, vivere è – essenzialmente – essere visti.





È un film sparato in faccia allo spettatore, è un film che non vuole essere filosofico. Ma ugualmente, racconta il nostro terrore della vecchiaia, e con essa di quella voce implacabile che ti dice che devi andare, fare posto, come cantava Ligabue in "Una vita da mediano". The Substance, la sostanza che ti permette di accedere a “una versione migliore di te”, può essere qualsiasi cosa: le costosissime creme anti-aging, la liposuzione, gli impianti di protesi al seno, alle labbra, i ritocchini, o le pomate per far tornare la barba scura, gli impianti al cuoio capelluto, i nuovi capelli, tutto quello che farmacologia e tecnologia sono riusciti a inventare. Ma ci sarà sempre il giorno in cui il nostro dito indice mostrerà rughe inedite, e un’unghia nera che si sta per staccare. Ci sarà sempre un angolo di pelle vizza a rivelare che la nostra partita con la morte sta continuando, e che sta vincendo lei. Viene da chiedersi quali siano state le suggestioni, le ispirazioni della regista. E certo, pensi a quel lungo corridoio nello studio televisivo, con le pareti arancio come il tappeto nel corridoio di Shining. E pensi a quelle simmetrie. A quei bagni con tutto quel rosso. E soprattutto l’eco di quella scena, quando Jack Torrance/Jack Nicholson stringe fra le braccia una bellissima donna, in un bagno, e di colpo quella donna appare come una vecchia laida, vizza, inguardabile. Ciò che accade, più di una volta, anche in questo film. E allora sì, una ispirazione l’abbiamo trovata: e lo conferma una sequenza che sembra strappata di peso dal viaggio oltre l’infinito dell’astronauta di 2001: Odissea nello spazio (guarda la video recensione): quella cavalcata in avanti fra luci, colori, figure indefinite, una ghost ride, una corsa fra immagini psichedeliche, a raccontare un tuffo nell’ignoto. Nel film di Kubrick era negli spazi interstellari, qui nell’abisso di un’altra sé. Ah, dimenticavamo: c’è anche, nella colonna sonora, il Così parlò Zarathustra di Richard Strauss, che è così essenziale nell’introduzione di 2001: Odissea nello spazio (guarda la video recensione) di Kubrick.

Kubrick, fra le fonti di ispirazione. E Cronenberg, e anche un po’ il Jonathan Glazer di Under the Skin, nel quale vedevamo Scarlett Johansson sorgere alla vita, nuda e disorientata, proprio come Margaret Qualley in The Substance. Ma al di là delle citazioni, del gioco da appassionato, delle allusioni cinéphiles, il film ci dice una cosa sola e precisa: invecchiando, attanagliati dalla sensazione di essere invisibili, tutti cerchiamo disperatamente di ringiovanire, buttiamo in qualche sgabuzzino l’anziano che abita in noi e andiamo a qualche festa, illudendoci di avere ancora vent’anni. Se nessuno ci guarda, se si spengono i riflettori, saremmo disposti a tutto pur di vederli riaccendersi. Al tavolino di una cafeteria un vecchio, che ha provato anche lui la “sostanza”, dice “E’ sempre più dura ricordare che meriti di esistere, che significhi qualcosa!”. I vecchi hanno la sensazione di non meritare di esistere, di non significare più niente. E gli altri, tutti uomini, nel film di fronte alla bruttezza fuggono. Senza porsi domande, senza interagire con l’altra persona, fuggono e basta. Il messaggio del film in fondo è semplice: guarda che società, dove vivi solo se sei “visto”, dove la bellezza è l’unica moneta certa, dove se sei giovane e bella trovi tutte le porte aperte, anche quella del vicino. Mentre, se sei – per dirla con Nanni Moretti – una splendida sessantenne, non hai nessuna speranza. Non so se nell’alto Medioevo, o se nelle società della Micronesia, o fra gli indigeni Ona della Patagonia fosse così: da noi, Occidente, terzo millennio, è così.
 
Le donne oltre i 50 non sono solo brutte e indesiderabili, gli andrebbe pure messa la museruola perché diventano intrattabili
volevo evidenziare abbastanza ironicamente che Demi Moore sta avendo (mooolto alla lontana) i problemi tipici di ogni maschio che esce dall'infanzia e si affaccia alla vita
 
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