16 anni per non avere giustizia: ma la carnefice è un'altra donna

Gelointenso_isback

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Nel 2001 Camilla (il nome è di fantasia) aveva 16 anni. Da ieri, e di anni ne sono passati altrettanti, i suoi aguzzini sono liberi. Per sempre. Giovedì sera alle 22, la terza sezione penale della Cassazione ha messo la parola fine alla sua odissea giudiziaria, oltre che al suo personale calvario. I reati a carico di coloro che lei aveva accusato di violenza sessuale sono estinti perché prescritti. E poco importa che la vita di Camilla, che oggi ha 32 anni, sia stata irrimediabilmente segnata da tutta quella vicenda. Per lei giustizia non ci sarà, ormai è troppo tardi.

Una storia di processi lumaca in cui a pagare è una ragazzina. Che, già violentata dal padre, finisce in una comunità per minori alle porte di Torino. Camilla non ha ancora compiuto 17 anni, è un’adolescente con tanti problemi, cerca disperatamente un punto di riferimento. E crede di trovarlo in una educatrice. O almeno così sarebbe dovuta andare. Una donna con vent’anni in più di lei che avrebbe dovuto aiutarla a rimettersi in piedi, a dimenticare, a riprendere finalmente in mano la sua vita, così breve eppure già così dolorosa. Ma le cose non vanno come la giovanissima spera: la donna si trasforma immediatamente nella sua carnefice. Inizia quasi subito a imporle atti sessuali con lei. Proprio come aveva fatto suo padre, la costringe a sottomissioni continue. Abusa della sua posizione per ricattarla e ottenere ciò che vuole, inculcando nella ragazza l’idea che quello era il destino al quale non poteva ribellarsi. E quando finalmente Camilla è psicologicamente prostrata, di nuovo, le impone ménage à trois con il marito, prima, e con un amante poi (un maggiorenne della comunità). Camilla, che cercava di fuggire da un incubo, si trova catapultata in un inferno ancora peggiore. Fatto di sesso imposto con minacce e con droga: spesso per costringerla a fare ciò che non voleva, Camilla era costretta ad assumere stupefacenti.

Qualcosa cambia quando la teenager, ormai disperata, teme di essere incinta e decide di rivolgersi a un’altra educatrice della comunità. Le racconta tutto di quei mesi terribili. Le confida il timore di una maternità e di una serie di malattie a trasmissione sessuale. E finalmente trova un aiuto: la donna le sta accanto, le dà coraggio e la convince a denunciare.


È il 2002. Camilla crede che, finalmente, il suo dramma stia finendo. E, invece, si trova davanti un nuovo ostacolo da superare: i tempi della giustizia. Passano cinque anni prima che il processo, peraltro in abbreviato, finisca davanti al giudice per l’udienza preliminare del capoluogo piemontese. Nel 2007, l’educatrice, il marito e l’amante vengono condannati in primo grado. Per Camilla è finalmente una vittoria. L’unica, forse, di una vita difficile che non sarà mai più serena.

Ma gli imputati fanno appello. E, ancora una volta, l’orologio della giustizia, segna un tempo diverso da quello del buonsenso. La sentenza della Corte d’Appello di Torino viene pronunciata nel settembre 2016 e viene depositata a febbraio 2017. Le violenze singole, delle quali è accusata l’educatrice e lo spaccio di droga, sono ormai prescritti. Restano i piedi solo i reati di gruppo. E di imputati ne sono rimasti due: il marito dell’educatrice, nel frattempo, si è tolto la vita. Gli altri vengono condannati e fanno ricorso per Cassazione. I tempi sono brevissimi ormai. I due episodi contestati agli imputati sono di aprile e giugno 2002 e si prescrivono in quindici anni. Ci sono solo tre mesi prima che a pronunciare la sentenza sia il tempo invece dei giudici. Non saranno sufficienti.

A piazza Cavour il fascicolo viene trattato subito, nel giro di un mese la storia di Camilla è in aula. Ma non basta. L’unica via di uscita sarebbe giudicare il ricorso inammissibile, confermando quindi almeno le condanne della corte d’Appello. Ma per gli ermellini, che non giudicano il merito ma la legittimità dei processi, il ricorso è fondato. La Cassazione non può fare altro che annullare la sentenza della Corte d’Appello per intervenuta prescrizione. È l’ultimo capitolo di una storia in cui tra i colpevoli c’è anche la lentezza della giustizia.
 
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NEL 2001 Camilla (il nome è di fantasia) aveva 16 anni. Da ieri, e di anni ne sono passati altrettanti, i suoi aguzzini sono liberi. Per sempre. Giovedì sera alle 22, la terza sezione penale della Cassazione ha messo la parola fine alla sua odissea giudiziaria, oltre che al suo personale calvario. I reati a carico di coloro che lei aveva accusato di violenza sessuale sono estinti perché prescritti. E poco importa che la vita di Camilla, che oggi ha 32 anni, sia stata irrimediabilmente segnata da tutta quella vicenda. Per lei giustizia non ci sarà, ormai è troppo tardi.

Una storia di processi lumaca in cui a pagare è una ragazzina. Che, già violentata dal padre, finisce in una comunità per minori alle porte di Torino. Camilla non ha ancora compiuto 17 anni, è un’adolescente con tanti problemi, cerca disperatamente un punto di riferimento. E crede di trovarlo in una educatrice. O almeno così sarebbe dovuta andare. Una donna con vent’anni in più di lei che avrebbe dovuto aiutarla a rimettersi in piedi, a dimenticare, a riprendere finalmente in mano la sua vita, così breve eppure già così dolorosa. Ma le cose non vanno come la giovanissima spera: la donna si trasforma immediatamente nella sua carnefice. Inizia quasi subito a imporle atti sessuali con lei. Proprio come aveva fatto suo padre, la costringe a sottomissioni continue. Abusa della sua posizione per ricattarla e ottenere ciò che vuole, inculcando nella ragazza l’idea che quello era il destino al quale non poteva ribellarsi. E quando finalmente Camilla è psicologicamente prostrata, di nuovo, le impone ménage à trois con il marito, prima, e con un amante poi (un maggiorenne della comunità). Camilla, che cercava di fuggire da un incubo, si trova catapultata in un inferno ancora peggiore. Fatto di sesso imposto con minacce e con droga: spesso per costringerla a fare ciò che non voleva, Camilla era costretta ad assumere stupefacenti.

Qualcosa cambia quando la teenager, ormai disperata, teme di essere incinta e decide di rivolgersi a un’altra educatrice della comunità. Le racconta tutto di quei mesi terribili. Le confida il timore di una maternità e di una serie di malattie a trasmissione sessuale. E finalmente trova un aiuto: la donna le sta accanto, le dà coraggio e la convince a denunciare.


È il 2002. Camilla crede che, finalmente, il suo dramma stia finendo. E, invece, si trova davanti un nuovo ostacolo da superare: i tempi della giustizia. Passano cinque anni prima che il processo, peraltro in abbreviato, finisca davanti al giudice per l’udienza preliminare del capoluogo piemontese. Nel 2007, l’educatrice, il marito e l’amante vengono condannati in primo grado. Per Camilla è finalmente una vittoria. L’unica, forse, di una vita difficile che non sarà mai più serena.

Ma gli imputati fanno appello. E, ancora una volta, l’orologio della giustizia, segna un tempo diverso da quello del buonsenso. La sentenza della Corte d’Appello di Torino viene pronunciata nel settembre 2016 e viene depositata a febbraio 2017. Le violenze singole, delle quali è accusata l’educatrice e lo spaccio di droga, sono ormai prescritti. Restano i piedi solo i reati di gruppo. E di imputati ne sono rimasti due: il marito dell’educatrice, nel frattempo, si è tolto la vita. Gli altri vengono condannati e fanno ricorso per Cassazione. I tempi sono brevissimi ormai. I due episodi contestati agli imputati sono di aprile e giugno 2002 e si prescrivono in quindici anni. Ci sono solo tre mesi prima che a pronunciare la sentenza sia il tempo invece dei giudici. Non saranno sufficienti.

A piazza Cavour il fascicolo viene trattato subito, nel giro di un mese la storia di Camilla è in aula. Ma non basta. L’unica via di uscita sarebbe giudicare il ricorso inammissibile, confermando quindi almeno le condanne della corte d’Appello. Ma per gli ermellini, che non giudicano il merito ma la legittimità dei processi, il ricorso è fondato. La Cassazione non può fare altro che annullare la sentenza della Corte d’Appello per intervenuta prescrizione. È l’ultimo capitolo di una storia in cui tra i colpevoli c’è anche la lentezza della giustizia.
Stupro di una donna ai danni di un'altra donna...
 
NEL 2001 Camilla (il nome è di fantasia) aveva 16 anni. Da ieri, e di anni ne sono passati altrettanti, i suoi aguzzini sono liberi. Per sempre. Giovedì sera alle 22, la terza sezione penale della Cassazione ha messo la parola fine alla sua odissea giudiziaria, oltre che al suo personale calvario. I reati a carico di coloro che lei aveva accusato di violenza sessuale sono estinti perché prescritti. E poco importa che la vita di Camilla, che oggi ha 32 anni, sia stata irrimediabilmente segnata da tutta quella vicenda. Per lei giustizia non ci sarà, ormai è troppo tardi.

Una storia di processi lumaca in cui a pagare è una ragazzina. Che, già violentata dal padre, finisce in una comunità per minori alle porte di Torino. Camilla non ha ancora compiuto 17 anni, è un’adolescente con tanti problemi, cerca disperatamente un punto di riferimento. E crede di trovarlo in una educatrice. O almeno così sarebbe dovuta andare. Una donna con vent’anni in più di lei che avrebbe dovuto aiutarla a rimettersi in piedi, a dimenticare, a riprendere finalmente in mano la sua vita, così breve eppure già così dolorosa. Ma le cose non vanno come la giovanissima spera: la donna si trasforma immediatamente nella sua carnefice. Inizia quasi subito a imporle atti sessuali con lei. Proprio come aveva fatto suo padre, la costringe a sottomissioni continue. Abusa della sua posizione per ricattarla e ottenere ciò che vuole, inculcando nella ragazza l’idea che quello era il destino al quale non poteva ribellarsi. E quando finalmente Camilla è psicologicamente prostrata, di nuovo, le impone ménage à trois con il marito, prima, e con un amante poi (un maggiorenne della comunità). Camilla, che cercava di fuggire da un incubo, si trova catapultata in un inferno ancora peggiore. Fatto di sesso imposto con minacce e con droga: spesso per costringerla a fare ciò che non voleva, Camilla era costretta ad assumere stupefacenti.

Qualcosa cambia quando la teenager, ormai disperata, teme di essere incinta e decide di rivolgersi a un’altra educatrice della comunità. Le racconta tutto di quei mesi terribili. Le confida il timore di una maternità e di una serie di malattie a trasmissione sessuale. E finalmente trova un aiuto: la donna le sta accanto, le dà coraggio e la convince a denunciare.


È il 2002. Camilla crede che, finalmente, il suo dramma stia finendo. E, invece, si trova davanti un nuovo ostacolo da superare: i tempi della giustizia. Passano cinque anni prima che il processo, peraltro in abbreviato, finisca davanti al giudice per l’udienza preliminare del capoluogo piemontese. Nel 2007, l’educatrice, il marito e l’amante vengono condannati in primo grado. Per Camilla è finalmente una vittoria. L’unica, forse, di una vita difficile che non sarà mai più serena.

Ma gli imputati fanno appello. E, ancora una volta, l’orologio della giustizia, segna un tempo diverso da quello del buonsenso. La sentenza della Corte d’Appello di Torino viene pronunciata nel settembre 2016 e viene depositata a febbraio 2017. Le violenze singole, delle quali è accusata l’educatrice e lo spaccio di droga, sono ormai prescritti. Restano i piedi solo i reati di gruppo. E di imputati ne sono rimasti due: il marito dell’educatrice, nel frattempo, si è tolto la vita. Gli altri vengono condannati e fanno ricorso per Cassazione. I tempi sono brevissimi ormai. I due episodi contestati agli imputati sono di aprile e giugno 2002 e si prescrivono in quindici anni. Ci sono solo tre mesi prima che a pronunciare la sentenza sia il tempo invece dei giudici. Non saranno sufficienti.

A piazza Cavour il fascicolo viene trattato subito, nel giro di un mese la storia di Camilla è in aula. Ma non basta. L’unica via di uscita sarebbe giudicare il ricorso inammissibile, confermando quindi almeno le condanne della corte d’Appello. Ma per gli ermellini, che non giudicano il merito ma la legittimità dei processi, il ricorso è fondato. La Cassazione non può fare altro che annullare la sentenza della Corte d’Appello per intervenuta prescrizione. È l’ultimo capitolo di una storia in cui tra i colpevoli c’è anche la lentezza della giustizia.
Riassunto:



• Camilla, una ragazza di 16 anni, subisce abusi dal padre e poi in una casa per minori a Torino.


• L'educatrice del centro, invece di proteggerla, diventa la sua carnefice, imponendole atti sessuali e drogandola.


• Camilla trova il coraggio di denunciare dopo aver parlato con un'altra educatrice.


• Il processo inizia nel 2002, ma la giustizia è lenta: passano cinque anni prima del primo verdetto.


• Nel 2007, gli aguzzini vengono condannati in primo grado, ma fanno appello.


• La sentenza della Corte d'Appello arriva nel 2016, ma molti reati sono già prescritti.


• La Cassazione annulla la sentenza per intervenuta prescrizione, lasciando i colpevoli liberi.


• La storia evidenzia la lentezza della giustizia e le sue conseguenze devastanti per le vittime.



 
Riassunto della vicenda di Camilla
Nel 2001, Camilla, una ragazza di 16 anni, vittima di violenza sessuale da parte del padre, viene affidata a una comunità per minori vicino a Torino. Qui, invece di trovare protezione, subisce abusi da parte di un’educatrice e di altre persone legate a lei, tra cui il marito e un amante. Costretta a subire violenze sessuali e a usare droga sotto ricatto, Camilla vive un incubo che dura mesi.
Nel 2002, temendo una gravidanza e malattie, Camilla trova il coraggio di denunciare grazie all’aiuto di un’altra educatrice. Inizia così un lungo percorso giudiziario che si conclude solo nel 2017 con la prescrizione dei reati, nonostante le condanne in primo grado e in appello. La Cassazione, nel 2023, annulla la sentenza di appello per intervenuta prescrizione, liberando definitivamente gli imputati.
Punti chiave e riflessioni
• Violenza e abuso di potere: Camilla è stata vittima di abusi da parte di chi avrebbe dovuto proteggerla, aggravando il suo trauma.
• Lentezza della giustizia: Il processo si è trascinato per oltre 15 anni, portando alla prescrizione dei reati e all’impunità degli aggressori.
• Fallimento del sistema: La vicenda evidenzia come la giustizia possa risultare inefficace per le vittime di violenza, soprattutto quando i tempi processuali sono troppo lunghi.
• Impatto sulla vittima: Camilla, oggi 32enne, non ha ottenuto giustizia e la sua vita è stata irrimediabilmente segnata.
Possibili azioni e riflessioni sociali
• Riforma dei tempi processuali: Accelerare i processi penali, specialmente nei casi di violenza sessuale su minori, per evitare prescrizioni ingiuste.
• Supporto alle vittime: Rafforzare i servizi di assistenza psicologica e legale per chi denuncia abusi.
• Prevenzione e formazione: Migliorare la formazione degli operatori nelle comunità per minori per prevenire abusi di potere.
• Sensibilizzazione: Diffondere storie come quella di Camilla per aumentare la consapevolezza e la pressione sociale su istituzioni e politica.
 
Collegamento tra la vicenda di Camilla e il concetto di “homo homini lupus”
L’espressione latina “homo homini lupus”, attribuita a Plauto e ripresa da Thomas Hobbes, significa letteralmente “l’uomo è un lupo per l’altro uomo”. Essa sintetizza la visione pessimistica della natura umana, in cui gli individui possono essere crudeli, predatori e dannosi gli uni verso gli altri, soprattutto in assenza di leggi o di un potere che garantisca ordine e giustizia.
Come si collega questa vicenda a “homo homini lupus”?
1. La crudeltà umana e l’abuso di potere
La storia di Camilla è un drammatico esempio di come un essere umano possa diventare un “lupo” per un altro, sfruttando la propria posizione di autorità (l’educatrice) per infliggere dolore, violenza e sopraffazione a una ragazza vulnerabile. La violenza sessuale, il ricatto, la manipolazione psicologica e l’abuso di sostanze stupefacenti sono manifestazioni estreme di questa natura predatoria.
2. La fragilità delle vittime e la loro condizione di prede
Camilla, già vittima di violenza paterna, si trova in una condizione di estrema vulnerabilità, cercando aiuto e protezione in un luogo che invece si trasforma in un ambiente ostile. Questo evidenzia come, nella realtà, spesso chi è più debole può diventare facile preda della crudeltà altrui.
3. La lentezza della giustizia come ulteriore forma di “lupesità” sociale
Non solo gli individui, ma anche le istituzioni possono, indirettamente, agire come “lupi”. La lentezza e l’inefficienza del sistema giudiziario, che ha portato all’estinzione dei reati per prescrizione, rappresentano una forma di ingiustizia che tradisce la vittima, lasciando impuniti i colpevoli. Anche questo è un modo in cui l’uomo diventa “lupo” per l’altro, negando la protezione e la giustizia necessarie.
4. L’assenza di tutela e la solitudine della vittima
La vicenda mostra come la mancanza di un reale sostegno e di una risposta tempestiva da parte della società e delle istituzioni possa lasciare la vittima isolata, esposta a ulteriori sofferenze. Questo isolamento è terreno fertile per la predazione umana, un ulteriore segno della natura “lupesca” dell’uomo.
Conclusione
La storia di Camilla incarna tragicamente il significato di “homo homini lupus”: un uomo (o più uomini) che si comportano come lupi nei confronti di un altro uomo, infliggendo dolore, sopraffazione e ingiustizia. Essa mostra non solo la crudeltà individuale, ma anche le falle di un sistema che, troppo spesso, non riesce a proteggere i più vulnerabili, lasciandoli soli di fronte alla ferocia umana.
Se vuoi, posso aiutarti a riflettere anche su possibili soluzioni o su come la società potrebbe intervenire per evitare che storie come quella di Camilla si ripetano. Vuoi approfondire?
 
Il fatto che in questa vicenda l’aguzzina sia stata una donna non contraddice il concetto di “homo homini lupus”, che riguarda la natura umana in generale, indipendentemente dal genere. La frase indica che l’essere umano può essere predatorio e crudele verso un altro essere umano, e questo può manifestarsi sia da uomini sia da donne.
In particolare, la storia di Camilla mostra come anche una donna, in posizione di potere e fiducia, possa diventare carnefice, abusando di una persona vulnerabile. I dati attuali sul maltrattamento e abuso di minori in Italia confermano che le violenze e gli abusi non sono esclusivamente commessi da uomini: esistono casi significativi di maltrattamenti anche da parte di donne, in contesti familiari o educativi.
Quindi, il concetto di “homo homini lupus” si applica a tutte le persone, senza distinzione di genere, sottolineando come la crudeltà e la sopraffazione siano tratti umani universali, non limitati a un sesso specifico.
 
Soprattutto lì caro Gelo
concetto di “homo homini lupus” (l’uomo è un lupo per l’uomo) esprime la visione pessimistica della natura umana come intrinsecamente egoista, aggressiva e competitiva, in cui gli individui tendono a vedersi come nemici e a sopraffarsi a vicenda per il proprio interesse e sopravvivenza.
Collegandolo al sesso e al mercato sessuale, questo concetto può essere interpretato nel senso che anche nelle relazioni sessuali e affettive possono emergere dinamiche di competizione, sfruttamento e aggressività. Nel mercato sessuale, infatti, gli individui possono comportarsi in modo egoistico, cercando di ottenere vantaggi personali, spesso a discapito degli altri, proprio come “lupi” che competono per risorse scarse, in questo caso partner o attenzioni sessuali.
Inoltre, la natura conflittuale e competitiva descritta da Hobbes nello stato di natura, dove ogni uomo cerca di prevalere sugli altri per soddisfare i propri desideri, si riflette anche nelle dinamiche di potere e scambio che caratterizzano il mercato sessuale: la ricerca di vantaggi, il timore di essere sopraffatti o rifiutati, e la necessità di “contrattare” il proprio valore o il proprio ruolo possono essere visti come manifestazioni di quella stessa natura “lupesca”.
In sintesi, il collegamento tra “homo homini lupus” e il sesso/mercato sessuale sta nell’idea che anche in ambito sessuale le relazioni umane possono essere dominate da egoismo, competizione e conflitto, riflettendo la natura aggressiva e strumentale dell’uomo verso il proprio simile, come evidenziato dalla filosofia hobbesiana e da riflessioni sociologiche e psicologiche successive.
 
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