Mi chiamo M., ho 43 anni e mia figlia è nata dal mio stupratore.
Non lo sa nessuno.
Non lo sanno i miei genitori, né le mie sorelle. Non lo sa nemmeno mia figlia.
La verità è nascosta sotto strati di bugie dette per sopravvivere.
Perché ci sono verità talmente dolorose che se le dici, ti annientano.
Avevo 23 anni. Lavoravo come cameriera in un ristorante di provincia.
Lui era un cliente abituale. Elegante, distinto. Parlava poco ma sapeva ascoltare. Aveva almeno 15 anni più di me.
Un giorno mi offre un passaggio dopo il turno.
Accetto.
E quella è stata la mia condanna.
Non ho mai capito se fosse pianificato, se fosse solo un attimo in cui ha deciso che il mio corpo era suo.
Ricordo solo la sua mano che chiude la portiera.
Le urla soffocate.
Il sangue.
E poi il silenzio.
Non ho denunciato.
Avevo paura.
Vergogna.
E poi ero “solo una ragazza sola”, “una che tornava a casa tardi”, “una che ci è salita da sola su quella macchina”.
Dopo un mese ho scoperto di essere incinta.
Il mio primo istinto è stato quello di togliermelo.
Poi ho guardato la prima ecografia. E ho pianto.
Non di dolore, ma di amore.
Perché in quell’ombra minuscola non vedevo più lui.
Vedevo me.
Vedevo vita.
Mia figlia è nata nove mesi dopo. Nessuno ha mai saputo nulla.
Ho detto che era un padre che non ci voleva, che non se l’era sentita.
Tutti hanno accettato la versione senza troppe domande.
Sono passati vent’anni.
Mia figlia oggi è una ragazza stupenda, piena di sogni e voglia di vivere.
Io sono una madre ferita, ma fiera.
Ogni giorno la guardo e mi chiedo:
"Come può nascere tanta bellezza da un atto tanto orribile?"
La risposta è una sola: l’amore è più forte dell’orrore.
Anche se, ogni tanto, quando mi sveglio nel cuore della notte e sento ancora l’odore di quell’uomo addosso, mi chiedo se avrò mai pace.
Mi chiamo M., ho 43 anni, e convivo da vent’anni con un segreto che mi sta uccidendo.
Ma che, allo stesso tempo, è la ragione per cui non mi sono mai uccisa davvero.
F., 43 anni
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Non lo sa nessuno.
Non lo sanno i miei genitori, né le mie sorelle. Non lo sa nemmeno mia figlia.
La verità è nascosta sotto strati di bugie dette per sopravvivere.
Perché ci sono verità talmente dolorose che se le dici, ti annientano.
Avevo 23 anni. Lavoravo come cameriera in un ristorante di provincia.
Lui era un cliente abituale. Elegante, distinto. Parlava poco ma sapeva ascoltare. Aveva almeno 15 anni più di me.
Un giorno mi offre un passaggio dopo il turno.
Accetto.
E quella è stata la mia condanna.
Non ho mai capito se fosse pianificato, se fosse solo un attimo in cui ha deciso che il mio corpo era suo.
Ricordo solo la sua mano che chiude la portiera.
Le urla soffocate.
Il sangue.
E poi il silenzio.
Non ho denunciato.
Avevo paura.
Vergogna.
E poi ero “solo una ragazza sola”, “una che tornava a casa tardi”, “una che ci è salita da sola su quella macchina”.
Dopo un mese ho scoperto di essere incinta.
Il mio primo istinto è stato quello di togliermelo.
Poi ho guardato la prima ecografia. E ho pianto.
Non di dolore, ma di amore.
Perché in quell’ombra minuscola non vedevo più lui.
Vedevo me.
Vedevo vita.
Mia figlia è nata nove mesi dopo. Nessuno ha mai saputo nulla.
Ho detto che era un padre che non ci voleva, che non se l’era sentita.
Tutti hanno accettato la versione senza troppe domande.
Sono passati vent’anni.
Mia figlia oggi è una ragazza stupenda, piena di sogni e voglia di vivere.
Io sono una madre ferita, ma fiera.
Ogni giorno la guardo e mi chiedo:
"Come può nascere tanta bellezza da un atto tanto orribile?"
La risposta è una sola: l’amore è più forte dell’orrore.
Anche se, ogni tanto, quando mi sveglio nel cuore della notte e sento ancora l’odore di quell’uomo addosso, mi chiedo se avrò mai pace.
Mi chiamo M., ho 43 anni, e convivo da vent’anni con un segreto che mi sta uccidendo.
Ma che, allo stesso tempo, è la ragione per cui non mi sono mai uccisa davvero.

