Una volta, Socrate era stato invitato a un banchetto organizzato in onore di Agatone, un giovane poeta tragico che aveva appena vinto un importante premio teatrale ad Atene. Era una serata di festa, da trascorrere tra amici, filosofi e artisti. Si decise di bere vino con più moderazione del solito, e uno dei presenti propose di parlare dell'amore. Ognuno fece il proprio discorso, elogiando l'amore a modo proprio.
Quando toccò a Socrate, non fece un elogio personale, raccontò ciò che una donna sapiente, Diotima, gli aveva insegnato sull'amore. Fu Diotima a dirgli che Eros non è un dio, ma un demone, cioè qualcosa che sta a metà tra il divino e l'umano, tra l'ignoranza e la conoscenza, tra la mancanza e la pienezza.
Eros, racconta Diotima, è figlio di Penia (povertà) e di Poros (ingegno), e questo fa sì che la sua natura sia duplice e inquieta:
Dunque, in quanto Eros è figlio di Penia e Poros, gli è toccato un destino di questo tipo. Prima di tutto è povero sempre ed è tutt’altro che bello e delicato, come ritengono i più. Invece, è duro e ispido, scalzo e senza casa, si sdraia sempre per terra senza coperte e dorme all’aperto davanti alle porte o in mezzo alla strada e, perché ha la natura della madre, sempre accompagnato con povertà.
Per ciò che riceve dal padre, invece, egli è insidiatore dei belli e dei buoni, è coraggioso, audace, impetuoso, straordinario cacciatore, intento sempre a tramare intrighi, appassionato di saggezza, pieno di risorse, ricercatore di sapienza per tutta la vita, straordinario incantatore, preparatore di filtri, sofista.
Eros non possiede ciò che desidera: è desiderio puro, fame di bellezza, di verità, di bene. Per questo ama. E per questo tutti noi possiamo amare: perché tutti, in qualche misura, siamo mancanti. Non si ama infatti ciò che si ha, ma ciò che ci manca e che desideriamo tenere con noi per sempre:
Chi ama desidera ciò che non ha, e desidera tenerlo con sé per sempre.
E qui Diotima introduce quella che conosciamo come la scala dell’amore: un percorso che l’anima può fare, dall’amore più semplice a quello più profondo e duraturo. All’inizio si ama la bellezza di un corpo, ma poi si comprende che la bellezza non è unica né esclusiva. Allora si comincia ad amare la bellezza di tutti i corpi, ovvero il principio stesso della bellezza fisica. Poi si sale ancora. Si comincia ad apprezzare la bellezza dell’anima: il carattere, la sensibilità, la mente. L’amore si fa più interiore, più riflessivo. A quel punto, si cominciano ad amare le azioni giuste, le leggi, la giustizia, tutto ciò che costruisce armonia nel vivere insieme. Poi si ama il sapere stesso, la conoscenza, il pensiero. Si ama ciò che ci fa crescere come esseri umani. E infine si arriva al vertice:
Allora egli vedrà una bellezza meravigliosa: quella bellezza che è l’origine di ogni bellezza delle cose, e che non nasce né muore, non cresce né diminuisce, non è bella da un lato e brutta dall’altro, non è bella oggi e brutta domani, non è bella in relazione a qualcosa, ma è la bellezza in sé, eterna, immutabile.
Questa scala dell’amore è un percorso filosofico, ma secondo me può essere vista anche come il mutamento dell’amore nella nostra vita.
Il primo amore, quello giovanile, spesso è travolgente, istintivo, pieno di idealizzazioni. Ma con il tempo, se siamo disposti a crescere, anche nel dolore, l’amore può maturare e diventare cura, alleanza, comprensione profonda. E anche dopo una delusione, anche dopo la fine di un amore importante, si può tornare ad amare. Forse non sarà lo stesso tipo di amore, forse sarà meno ingenuo, ma potrà essere più vero, più consapevole e più duraturo.
E se a volte il cinismo affiora è naturale, il dolore ci porta ad essere cinici. Ma sotto quel cinismo, se resta il desiderio di qualcosa di bello e buono, credo che Eros sia ancora vivo dentro di noi. Perché Eros non è felicità: è desidedrio e tensione verso qualcosa che per noi vale, anche se non ce l’abbiamo ancora. E in questo, forse, l’amore resta sempre giovane.