Da Prezzolini a Meloni: l'invenzione della nazione

mcanrew

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Di certo lo storytelling della sinistra si è rivelato fragile, con la bandiera dell’accoglienza in nome di un dovere etico o di un vantaggio economico (senza dare risposte a quei cittadini italiani che vivono disagio e povertà). Perché se abito in un quartiere come Torre Maura o Casal Bruciato non c’è niente di più facile che credere a un capro espiatorio diverso da me per cultura, pelle, religione, a cui dare la colpa se non lavoro e la mia vita è a pezzi. E magari stringersi alla confortante idea di un’identità nazionale da recuperare per condividere “cultura, tradizioni e valori”. Peccato che le nazioni non siano entità prestabilite una volta per sempre, ma comunità immaginate. Ovvero società nate per effetto di strategie d’integrazione politica, pensate per cementare un senso di solidarietà e d’identità laddove questo manca o non è mai esistito. Vale perlomeno dal XVIII secolo (dai tempi della vecchia e cara Rivoluzione francese): sono gli stati a fare le nazioni, e non il contrario. Non è un caso che Massimo d’Azeglio avesse esclamato (senza timore di essere smentito) che «fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani». E come infondere un senso d’appartenenza nazionale a milioni di contadini, artigiani, operai analfabeti che l’italiano non lo sapevano nemmeno parlare, figuriamoci scriverlo, e che a stento sapevano dove fosse Roma, capitale del Regno? Come costruire un’identità patriottica in un paese diviso da tradizioni diverse, dialetti diversi e il cui mondo non andava oltre il campanile di una chiesa? Semplice: attraverso un immaginario comune, capace di creare una memoria collettiva. Scuola, esercito, stampa, furono strumenti per apprendere il senso di appartenenza nazionale. E ancora statue e monumenti ai caduti (che celebravano il culto del sangue versato per la grandezza del suolo patrio), rituali, simboli (l’Italia come donna che allatta i figli). E bandiere, inni, poesie, melodrammi e opere liriche.
 
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