Re dei misogini
Well-known member
WARNING: post lungo. Iniziate a leggere solo se avete la soglia di attenzione più alta di quella di uno studente delle medie.
Il concetto di distopia è strettamente legato a quello di utopia coniato da Tommaso Moro. In un’utopia, sostanzialmente, vige una struttura sociale di tipo socialista/comunista, nella quale non esiste la proprietà privata e la popolazione vive secondo le istruzioni di un piccolo gruppo di individui illuminati e virtuosi. Il libero arbitrio è sostituito da comportamenti decisi dal sistema per il bene comune.
Quando questo sistema, invece che il bene comune, produce miseria collettiva, allora abbiamo una distopia.
La letteratura di genere distopico ci ha abituati a pensare che la distopia sia qualcosa di annunciato, che un mondo oppressivo e anti-umano sia evidente a chi vi vive dentro. Ma non è così. Non ci siamo accorti del cambiamento, perché è stato graduale, giustificato da chi l’ha voluto, dipinto come se fosse il naturale corso degli eventi.
Ci sono così tante cose, ora assenti dalle nostre vite, che un tempo erano date per scontate, e non ci siamo nemmeno accorti che stavano scomparendo. Prendete come esempio la sicurezza nelle strade. Pensate a quanto fossero sicure le città un tempo, a come si potesse girare anche di notte e le probabilità di finire nei guai fossero minime. Poi è iniziato il grande esperimento sociale di fine ventesimo secolo. Ci hanno detto che bisognava essere multirazziali, che la società doveva essere un miscuglio di culture differenti. E così nei paesi occidentali sono state fatte entrare orde di individui senza identità, senza competenze e con una cultura diametralmente opposta alla nostra. Allo stesso tempo sono stati decriminalizzati reati e concessi indulti per svuotare le carceri.
Ora pensate all’arte, all’architettura. Pensate ai monumenti del passato, ai palazzi storici, alle opere d’arte. Mettetele a confronto con l’antiestetico mondo di plastica grigia e cemento in cui viviamo oggi. Un mondo fatto di inutile burocrazia, un’intera cultura di zombie lavoratori che non sanno nemmeno per quale motivo esistono. Droni che abitano in città-formicaio, progettate e costruite non per viverci, ma per massimizzare lavoro e produttività. E i professoroni si meravigliano quando scoprono che ansia e depressione sono i disturbi più diffusi del ventunesimo secolo, che la quantità di gente sotto antidepressivi cresce ogni anno, così come le persone che vanno dagli psicologi, a farsi insegnare ad accettare pacificamente una condizione di vita inaccettabile.
Vi ricordate i libri e i film classici? Ricordate quante storie originali e memorabili sono state scritte? Quando è l’ultima volta che avete visto o letto qualcosa di tanto originale? Oggi l’intrattenimento è prodotto in catena di montaggio, tutto uguale. È come il pappone proteico che mangiano in Matrix: compie il suo dovere di passatempo, ma è insipido e insoddisfacente. Lo scopo dell’intrattenimento è diventato unicamente consumistico e propagandistico. L’arte non ha più nulla a che vedere con esso.
Non esistono più le comunità. Quasi nessuno conosce più i propri vicini, il proprio negoziante di fiducia, il postino. Al loro posto, abbiamo lo schermo di un cellulare sul quale far scorrere le foto delle vite altrui.
Hanno messo in testa alle donne che il loro ruolo biologico di mogli e madri è una forma di oppressione patriarcale, che il vero scopo della vita è sedere a una scrivania e rispondere a email inutili, così da potersi permettere cibo spazzatura e paccottiglia di cui non si ha davvero bisogno. Nasci, cresci, produci, consuma e muori. Ciò che lasci farà da fertilizzante per far crescere altri droni da buttare nel formicaio.
Hanno drenato via il calore dalla nostra civiltà. Hanno preso tutto ciò che di grandioso ha fatto l’umanità, e l’hanno trasformato in blando modernismo. Ci hanno convinti che un essere dalle potenzialità infinite come l’uomo, dovrebbe starsene a vegetare in un monolocale, ordinando cibo online da un immigrato. Ci hanno fatto credere che importando negri, questi avrebbero pagato le nostre pensioni e lavorato per noi, che si sarebbero integrati nella nostra cultura. Invece ce li siamo ritrovati a rubare, borseggiare, spacciare, pisciare sui marciapiedi e mendicare. I governanti pensavano alla produttività, alle conseguenze economiche dell’invecchiamento della popolazione, fregandosene altamente delle conseguenze sociali che avrebbe portato mischiare a questo modo culture incompatibili.
Viviamo in una distopia, in una prigione senza sbarre. La civiltà occidentale, quella che è stata costruita da uomini forti e saggi nel corso di millenni, è stata annientata nel giro di qualche decennio. L’unica cosa che possiamo fare è rifiutarci di contribuire al declino, tirarci fuori da questa realtà disumana, anche a costo di sacrificare uno stile di vita che, in fondo, non ci serve.
Il concetto di distopia è strettamente legato a quello di utopia coniato da Tommaso Moro. In un’utopia, sostanzialmente, vige una struttura sociale di tipo socialista/comunista, nella quale non esiste la proprietà privata e la popolazione vive secondo le istruzioni di un piccolo gruppo di individui illuminati e virtuosi. Il libero arbitrio è sostituito da comportamenti decisi dal sistema per il bene comune.
Quando questo sistema, invece che il bene comune, produce miseria collettiva, allora abbiamo una distopia.
La letteratura di genere distopico ci ha abituati a pensare che la distopia sia qualcosa di annunciato, che un mondo oppressivo e anti-umano sia evidente a chi vi vive dentro. Ma non è così. Non ci siamo accorti del cambiamento, perché è stato graduale, giustificato da chi l’ha voluto, dipinto come se fosse il naturale corso degli eventi.
Ci sono così tante cose, ora assenti dalle nostre vite, che un tempo erano date per scontate, e non ci siamo nemmeno accorti che stavano scomparendo. Prendete come esempio la sicurezza nelle strade. Pensate a quanto fossero sicure le città un tempo, a come si potesse girare anche di notte e le probabilità di finire nei guai fossero minime. Poi è iniziato il grande esperimento sociale di fine ventesimo secolo. Ci hanno detto che bisognava essere multirazziali, che la società doveva essere un miscuglio di culture differenti. E così nei paesi occidentali sono state fatte entrare orde di individui senza identità, senza competenze e con una cultura diametralmente opposta alla nostra. Allo stesso tempo sono stati decriminalizzati reati e concessi indulti per svuotare le carceri.
Ora pensate all’arte, all’architettura. Pensate ai monumenti del passato, ai palazzi storici, alle opere d’arte. Mettetele a confronto con l’antiestetico mondo di plastica grigia e cemento in cui viviamo oggi. Un mondo fatto di inutile burocrazia, un’intera cultura di zombie lavoratori che non sanno nemmeno per quale motivo esistono. Droni che abitano in città-formicaio, progettate e costruite non per viverci, ma per massimizzare lavoro e produttività. E i professoroni si meravigliano quando scoprono che ansia e depressione sono i disturbi più diffusi del ventunesimo secolo, che la quantità di gente sotto antidepressivi cresce ogni anno, così come le persone che vanno dagli psicologi, a farsi insegnare ad accettare pacificamente una condizione di vita inaccettabile.
Vi ricordate i libri e i film classici? Ricordate quante storie originali e memorabili sono state scritte? Quando è l’ultima volta che avete visto o letto qualcosa di tanto originale? Oggi l’intrattenimento è prodotto in catena di montaggio, tutto uguale. È come il pappone proteico che mangiano in Matrix: compie il suo dovere di passatempo, ma è insipido e insoddisfacente. Lo scopo dell’intrattenimento è diventato unicamente consumistico e propagandistico. L’arte non ha più nulla a che vedere con esso.
Non esistono più le comunità. Quasi nessuno conosce più i propri vicini, il proprio negoziante di fiducia, il postino. Al loro posto, abbiamo lo schermo di un cellulare sul quale far scorrere le foto delle vite altrui.
Hanno messo in testa alle donne che il loro ruolo biologico di mogli e madri è una forma di oppressione patriarcale, che il vero scopo della vita è sedere a una scrivania e rispondere a email inutili, così da potersi permettere cibo spazzatura e paccottiglia di cui non si ha davvero bisogno. Nasci, cresci, produci, consuma e muori. Ciò che lasci farà da fertilizzante per far crescere altri droni da buttare nel formicaio.
Hanno drenato via il calore dalla nostra civiltà. Hanno preso tutto ciò che di grandioso ha fatto l’umanità, e l’hanno trasformato in blando modernismo. Ci hanno convinti che un essere dalle potenzialità infinite come l’uomo, dovrebbe starsene a vegetare in un monolocale, ordinando cibo online da un immigrato. Ci hanno fatto credere che importando negri, questi avrebbero pagato le nostre pensioni e lavorato per noi, che si sarebbero integrati nella nostra cultura. Invece ce li siamo ritrovati a rubare, borseggiare, spacciare, pisciare sui marciapiedi e mendicare. I governanti pensavano alla produttività, alle conseguenze economiche dell’invecchiamento della popolazione, fregandosene altamente delle conseguenze sociali che avrebbe portato mischiare a questo modo culture incompatibili.
Viviamo in una distopia, in una prigione senza sbarre. La civiltà occidentale, quella che è stata costruita da uomini forti e saggi nel corso di millenni, è stata annientata nel giro di qualche decennio. L’unica cosa che possiamo fare è rifiutarci di contribuire al declino, tirarci fuori da questa realtà disumana, anche a costo di sacrificare uno stile di vita che, in fondo, non ci serve.